Oggi si muore di caldo.
In A22 c’è un incidente, così il traffico è deviato sulla nazionale.
Con una media di 10, 12 chilometri all’ora, casa è un miraggio irraggiungibile, che si avvicina di centro metri ogni due minuti.
Dentro, chiuso nel cubicolo dell’auto, c’è un microcosmo di calore e aria stantia, di sudore e polvere. Fuori, 20 chilometri di auto semoventi mi ricordano che aria tira se apro il finestrino.
Ancora un metro, poi un altro, poi mi fermo. Poi il traffico si ripiglia, accelero, faccio i 20, arrivo a sfiorare i 30 all’ora. In uno slancio di ottimismo, ingrano la terza, finché dieci posti avanti a me si accendono gli stop e come lucine di Natale arrivano fino alla macchina davanti.
30, 20, 10 all’ora.
Vado in prima, senza toccare l’acceleratore. Miracoli del diesel.
Mi sembra che a spinta si possa andare più veloce.
Casa è un miraggio più vicino di due o trecento metri.
In compenso, dentro ormai è finito quello che si poteva respirare.
Polvere e CO² di fuori, polvere e CO² dentro.
Tanto vale aprire e rischiare un tumore ai polmoni. Almeno so che fino a casa ci arrivo.
E poi? Poi si vedrà.
Un paese che di solito ti accorgi che ci sei entrato quando ormai ci sei uscito, ci metto quindici minuti ad attraversarlo.
L’eternità è caldo soffocante. E’ avere sete e non poter bere. E’ avere caldo e non avere fresco. L’eternità è quando fai il conto alla rovescia per l’ultimo respiro.
E allora, mi vien la tentazione di lasciare qui la macchina. Aprire le portiere, buttarmi fra l’erba, dentro i campi e aspettare che la marea passi.
Non lo faccio per due solidi motivi.
Uno, perché so che a casa ci ritorno, presto o tardi. E due, perché in fondo, se volessi lo potrei davvero fare.
Oggi si muore di caldo.
Tuttavia io torno a casa. Stanco, sudato, accaldato, assetato, ma io ritorno a casa.
E allora capisco che non so.
Davvero, non lo so com’è morire soffocati, stipati dentro un camion.