Nipoti moderni

Un altro capitolo del mio viaggio in Cina. Non segue da quello precedente. Buona lettura!

Quando scendiamo all’aeroporto ci viene a prendere il nipote più grande di Xiao. Il figlio della “glande solella”, come dice lei. Che vive a Sassuolo col marito e si spacca la schiena in fabbrica affinché i figli in Cina possano accedere all’università più prestigiosa di Hangzhou.

Il viaggio era durato dodici ore. Dodici ore in cui avevamo sorvolato l’Europa, la Siberia e il deserto di Gobi. Oltre le nubi, a 53 gradi centigradi sotto lo zero. Avevamo attraversato sei o sette fusi orari. Forse anche otto. Ma con i finestrini abbassati nessuno si era accorto di nulla.
Noi dipendiamo troppo dalla presenza o meno della luce e ancora di più da quello che dice il nostro orologio da polso.
Il mio diceva che quando avevo cercato di dormire era notte. Avevo tentato di prendere sonno, ma era impossibile con Xiao che continuava ad agitarsi. Sembrava una bambina che sta per assistere allo spettacolo più bello della sua vita. Nove anni lontana da casa. Nove anni di sofferenza, senza potere mai abbracciare la sua famiglia. Chi mai avrebbe dormito?
Dopo 12 ore di insonnia, tentando di spiluccare qua e là qualche stralcio dei pessimi film che venivano mandati sullo schermo centrale del velivolo, arriviamo a Shangai Pu Dong.
L’orologio di bordo segnala che sono circa le sei e mezza della mattina quando, ancora in volo, facciamo colazione. L’ultimo contatto con la cultura italiana prima dell’ignoto. Biscotti e cappuccino, brioches e thè o caffelatte. Il tutto gentilmente offerto dalla compagnia di bandiera.

Fuori dall’aeroporto c’è il sole a picco. Secondo il mio orologio sono le sette. Secondo quello cinese è mezzogiorno. Guardo ancora una volta il cielo.
Il sole dardeggia inesorabile. Non c’è storia. Ha ragione l’orologio cinese.

Allo sbarco ci accoglie questo ragazzo, che Xiao non vede da quando era un moccioso e che adesso ha venticinque anni ed è più alto di me. Ma i cinesi non dovevano essere tutti bassi?
Indossa una camicia tipo hawaiana, ha una sacca a tracolla e occhiali scuri. Pettinatura sbarazzina e alla moda. È molto più alla moda di me, anche se ammetto che non ci vuole molto.
In città ci riuniamo a sua sorella, di un paio d’anni più giovane. Anche lei universitaria, anche lei più alla moda di me.
Ying, una ragazza dal viso rotondetto, curiosa e simpatica. Parlano entrambi inglese alla perfezione. Lui è timido, ma lei è un fiume in piena. Parla tantissimo, fa un sacco di domande. A sua zia, ma anche a me. In inglese.
E lì si scontra con lo scoglio del mio inglese inesistente. Che si mescola a del tedesco parascolastico, in un obbrobrio linguistico difficilmente eguagliabile.
Cina – Italia: 1 a 0.

Andiamo in un ristorante a pranzare.
Un ristorante di lusso, dove hanno perfino i tovaglioli di carta.
Avrei scoperto in seguito che ciò che distingue un ristorante da una bettola in Cina dipende da due fattori: essere in grado di distribuire tovaglioli di carta e avere un cesso a disposizione. Se poi il cesso è pure praticabile, allora siamo al non plus ultra della ristorazione cinese.
Inutile dire che preferisco le bettole.

Si pranza. A suon di zuppe fumanti nemmeno un’ora dopo aver finito di pasteggiare a biscotti e caffèlatte. E dopo dodici ore filate di non sonno.
Ma sono l’unico a subirne gli effetti.
Xiao è rinata. Il ritorno a casa, i sapori, i colori della sua terra la tengono in piedi senza nessuna fatica. Il caldo soffocante e l’umidità di Shangai non sembrano toccarla. È come se rifiorisse.
Tutto il mio contrario. Quello è stato il primo assaggio della devastazione fisica che avrei subito stando in Cina.

Al ristorante mi fanno provare un tè locale. È l’occasione per la prima di una lunga serie di figure da barbaro occidentale: chiedo dello zucchero.
Il gestore del locale mi va in crisi, poi riesce a recuperare quelle che sono la versione locale delle zollette nostrane. Trattasi di cristalli traslucidi di una sostanza che, secondo le intenzioni dei cinesi, dovrebbe essere dolcificante.
Ne metto due, tre, quattro. Niente. Acqua calda insapore era e acqua calda insapore rimane. Lo butto giù tutto. Non si scioglie nemmeno.
I nipoti mi guardano con curiosità e trepidazione.
Mi domandano qualcosa in cinese che non capisco. Non lo avrei capito nemmeno in inglese.
Vogliono sapere se il tè è buono.
Diamine, è la loro bevanda nazionale. Ma per me ha lo stesso sapore dell’acqua calda. Volete sapere se è buono?
Certo, mai bevuto nulla di simile prima d’ora!
Rimandiamo almeno di qualche giorno i conflitti gastronomico-culturali.
A tarda sera salutiamo i nipoti: non li avremmo più visti durante la nostra permanenza in Cina. Il che equivaleva a dire che non li avremmo più visti fino al nostro ritorno in quella terra.

Se mai ci fossimo tornati.

6 Risposte a “Nipoti moderni”

  1. Bello! Come ti ho già detto sai unire l’ironia alle cose serie, il racconto fila via liscio e anzi, si vorrebbe subito leggerne un altro! Ma tu da buon sadico ci lasci qui a bocca asciutta… Ti odio!!

  2. Farmi odiare dai lettori è nella lista delle dieci cose da fare assolutamente prima di morire. Ora me ne rimangono solo nove. Gaudio!
    Scherzi a parte, grazie davvero.
    Alla prossima!

  3. Mi piacerebbe sarebbe quali sono le altre nove… magari ti potrei imitare! 🙂

  4. E’ perchè avevo casualmente inserito il cervello. Ma non accade spesso…sei stata fortunata!

I commenti sono chiusi.

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