I taxi di Lishue

Capitolo a caso del mio viaggio in Cina. Non segue da nessun altro. Buona lettura!

La casa di Lishue è la stata la mia casa per tutto il restante mese di maggio e anche un pezzetto di giugno.
Era la casa dove svernavano i genitori di Xiao, ma apparteneva a una delle tante sorelle emigrate in Italia.
Non capisco cosa ci facciano i cinesi con tutte queste case che comprano in Cina. Non danno l’impressione di volervi venire ad abitare tanto presto.

Da un grigio e angusto giro scale si entrava in un piccolo soggiorno.
Quasi di fronte, la cucina. A destra, le porte della camere dei suoi e quella dove stavamo noi. La nostra, l’unica con il poggiolo, era quella dove si stendevano i panni. Alle sette della mattina, che dormissimo o altro.
Il cesso, qualifica più che appropriata per quel tipo di locale, stava sulla destra, appena entrati in cucina.
Un cesso che dà sulla cucina.

Ricordo che quand’ero seduto sulla tazza, più spesso di quanto avrei voluto, cercavo di schiacciare gli scarafaggi che guizzavano qua e là e che mi sfuggivano da sotto i piedi. Ce n’erano sempre uno o due che si facevano vedere quando adempivo ai miei doveri fisiologici primari.
Mi sfidavano i bastardi! Sapevano per certo che, all’apice dello sforzo, era quasi impossibile riuscire a centrarli e farne gelatina. Maledetti stronzi!

Poi dimenticavo sempre di non buttare nella tazza quelle specie di salviette abrasive che passavano per carta igienica. E così, tirando l’acqua, il cesso si intasava. Xiao accorreva ai miei richiami, la madre ai suoi e mentre io mi tiravo su le braghe sfuggendo all’orrida, imminente tracimazione, mamma e figlia salvavano la situazione con un colpo deciso di sturalavandini.

Ricordo le zanzare e il caldo soffocante. Le une non erano impedite dalle zanzariere, l’altro si faceva beffe del ventolone appeso al soffitto. E quello oscillava in modo preoccupante quando lo mandavi al massimo.
Zanzare e caldo. Te le dovevi tenere.

Dal nostro poggiolo si vedeva uno scorcio della strada di sotto e una parte del vecchio quartiere. La strada non era asfaltata e le bici sobbalzavano quando centravano una delle tante, inevitabili buche. Quasi sotto di noi c’era un localino dove servivano qualche strana zuppa calda e a fianco, un venditore di frutta e ortaggi. Ricordo le angurie, verdi e rotonde, che campeggiavano su un di un carretto, appena tirato fin sotto la tettoia da qualche volenteroso pedalatore.
Al di là delle angurie, oltre il muro sbrecciato di mattoni rossi, cominciava e finiva ciò che rimaneva del quartiere vecchio.
Dall’altra lato del nostro palazzo, dove un tempo sorgeva qualcosa, ora c’era una grossa spianata che occupava lo spazio di tre o quattro grossi edifici.
Xiao mi disse che ci avrebbero costruito un parco.

Sotto di noi invece, ancora resisteva quello scorcio di antica povertà, casette basse basse e abbarbicate l’una alle altre, coi mattoni cotti nell’argilla rossa e il tetto spiovente in tegole e legno. Una piccola isola senza tempo, in mezzo allo sguardo severo dei palazzoni grigi che stavano tutt’attorno.
Oltre i palazzi popolari come il nostro, oltre le vecchie vie malferme di Lishue, si intravedevano altri colossi svettare ancora più in alto, con grandi vetrate e insegne al neon sfolgoranti nella notte.
Grattacieli con vetrate, strade nuove, centri commerciali abbaglianti, viuzze sconnesse, palazzoni grigi, casupole cadenti si mescolavano senza soluzione di continuità.
In una stradina secondaria, stretta stretta fra le case giallognole e sporche, un omino col carretto vendeva strani dolci fritti in un olio puzzolente, poi in una via trafficata e colorata, negozi colorati, insegne colorate, verdi, rosse e gialle, striscioni e centri commerciali e automobili e persone che camminavano e negozi di fotografia e di scarpe, borsette, borse, valigie, gonne, altre scarpe, wanton e zuppa di riso, ravioli fritti e riso cantonese e altri centri commerciali, persone e taxi e biciclette. E quelli che noi chiameremmo risciò, ma che lì hanno un nome diverso, di cui ricordo a malapena la pronuncia.
I taxi cinesi, così li chiamavo.

Ne sbucava sempre uno quando ti serviva.
Alzavi la mano, facevi un fischio e zac! Eccolo lì, pronto a scarrozzarti dappertutto, con la sola forza delle gambe, per pochi centesimi di yuan, con valigie e tutto il resto se serviva. Anche in tre, nonostante l’evidente illegalità della cosa. Ma per qualche decina di centesimi in più, l’onesto chauffeur non si faceva certo pregare.

Erano tutti magri come chiodi i pedalatori cinesi, ma filavano come frecce per le stradine sconnesse, zigzagando fra la folla, infischiandosi dei pedoni o dei vecchietti che non si scansavano per tempo, o in mezzo al traffico cittadino, passavano temerari fra autobus e taxi, testa bassa e pedalata veloce.

Non so come ci campassero. Chiedevano una miseria. Spesso non prendevano quanto richiesto. Dovevano litigare per ottenere il giusto. C’era sempre qualcuno che tirava sul prezzo della corsa. La madre di Xiao, per esempio. Perché erano andati troppo piano, perché avevano scelto la via più lunga, perché perché perché.
Io mi vergognavo come un cane e dicevo a Xiao:
“Dai, diamogli quello che chiede e andiamo via.”
Era come tirare su un quarto di biglietto dell’autobus, forse anche meno.
Ingenuo. Erano i primi giorni di Cina e si vedeva.

Non avevo ancora capito niente.

 

 

12 Risposte a “I taxi di Lishue”

  1. Ciao Teo! Bellissimo anche questo racconto-diario di vita vissuta, ti dirò mi piace parecchio il genere, complimenti. (forse mi piace più che Fair… ma questo non te lo dirò mai! – devi soffrire!) Avrei solo un suggerimento: perchè non alleghi anche i link a google earth dei posti dove sei stato? Così noi lettori possiamo anche usare un ulteriore senso per immergerci nella storia? (si lo so, è un lavoro palloso e tu sei già tanto preso a fare questo e quello… ma io intanto la butto li… sarebbe comunque figo!)
    A presto!

  2. Intanto, complimenti, il tuo è il commento numero 300. E rispondo alla prossima domanda: no, non vinci niente.
    Tornando seri, non sai quanto mi faccia piacere il tuo apprezzamento. Se Fair è il mio romanzo, questi racconti sulla Cina sono io. Ci ho messo l’anima a scriverli e sapere che qualcuno li apprezza mi fa davvero piacere.
    La questione di Google Earth è impossibile e ti spiego perché. Nemmeno io so dove sono stato. E non sono nemmeno sicuro che i nomi si scrivano come li ho scritti. Io so solo che sono stato “da qualche parte a sud di Shangai”.
    Grazie ancora, alla prossima.

  3. Mi piace molto questo estratto del tuo soggiorno in Cina, dovresti scriverne di più. Per me che non viaggio, è come se lo facessi, immagino nel dettaglio ciò che scrivi, senza dubbio distorto dalle immagini mentali che ho, guardando la tv.
    Proprio perchè quel che scrivi qui sei tu, lo apprezzo ancora di più. Mi sembra di vederti laggiù, in questo momento, sbigottito e incredulo, ma affascinato al tempo stesso, come lo sarei io, che davanti al nuovo e al diverso, sono curiosa e assetata.
    Aspetto di rileggere, allora, qualcos’altro di quotidiano della”tua” Cina!
    Complimenti, a presto Daina

  4. Ciao Daina, in realtà ho scritto un sacco di roba sulla Cina. A dirla tutta, è il primo vero manoscritto che ho completato. Potrei anche postarlo tutto sul blog in dieci minuti se volessi. Ma ancora tentenno perchè non so se valga la pena o no di pensare di proporlo a un editore. Che mi direbbe no, di certo, ma forse tentare non nuoce…boh…
    Comunque, credo che mi limiterò a questo, o pochi altri capitoli. Se vuoi, magari te lo posso inviare tutto via email. L’unica ad averlo letto tutto finora è Simonetta, com’è ovvio che sia.
    Se vuoi averlo, basta che mi contatti via email e ne parliamo, ok?
    Grazie ancora, ciao!

  5. Sono passata di qui. E mi è piaciuto.

    I diari sono viaggi virtuali nelle menti altrui.

  6. Grazie del passaggio. Allora hai fatto un viaggio virtuale nella mia mente? Povera…spero che tu riesca a uscirne integra…

  7. Beh, sono viva, vegeta e neurologicamente stabile. Direi che non sei il pazzo che si crede! 😀

    A me piacciono i tuoi diari.

  8. Cavolo, dovevi proprio dirlo? Adesso la gente penserà che io sia una persona normale…uffa…
    Bè, almeno i diari ti piacciono…

  9. Ma no Matty, tranquillo. Nessuno penserà mai che sei normale, Erika ha detto che non sei il pazzo che si crede… Non ha specificato che tipologia di pazzo invece sei! XD Un’altra cosa in comune con Erika, anch’io adoro i tuoi diari!

  10. Anche in questa versone diaristica riesci a mischiare umorismo ad una realtà piuttosto triste. Complimenti!

  11. Grazie. Probabilmente mi riesce dal fatto che la realtà è spesso davvero ambivalente.

I commenti sono chiusi.

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