Cercasi Paolo disperatamente

Ultima parte. Trovate tutti qui.

Piove.
In un istante, dal sole spaccapietre che ci martella, la luce svanisce e arriva l’ombra. Un’ombra scura e fitta, gravida di lampi e pioggia.
Viene giù il diluvio e noi ci accatastiamo nel bivacco d’alta quota, che in realtà non è pensato per tenere undici persone. Più due che si trovavano a passare proprio mentre cielo e terra han deciso di incontrarsi.
La tempesta infuria. Con un tetto di lamiera a ripararci, possiamo anche ignorare che fuori sembri di essere stati teletrasportati a Mordor. Ci facciamo un tè e scherziamo. Giulia e Alberto, gli scalatori poeti, lasciano un pensiero per i posteri sul diario del bivacco. La pioggia viene, la pioggia va. Repentina com’è arrivata, la tempesta si disperde. E anche se le nuvole rimangono nei dintorni, è chiaro che al momento non pioverà più.
Scendiamo. Seguiamo a ritroso la strada che abbiamo fatto per venire fino a qui. Siamo stanchi. La gita, che doveva essere finita ormai da un pezzo, manca ancora del suo passaggio più importante: la discesa a valle. 

I magnifici 11
I magnifici 11

Ore 16.00: arriviamo al bivacco Sief. Dovevamo essere già a valle, invece siamo al punto di partenza. Il cielo si spalanca ancora e ci delizia con un altro bell’acquazzone. Attendiamo nel bivacco e poi, quando smette, ripartiamo.
Siamo stanchi. Siamo davvero tanto stanchi. Rifarsi tutta la strada a ritroso, quando avevamo scelto di farne un’altra, è stato devastante. Nessuno però se ne lamenta. Nessuno molla. Anche le tre dell’Ave Maria, non avvezze a giri così lunghi, vanno avanti, stringono i denti e tirano diritte come tutti. Che sia la freschezza dei 18 anni?
La discesa è aspra. Solo quando scendi ti accorgi di quanto sia stata dura la salita, di quanto vada a picco. È per evitarci questa discesa che abbiamo tentato l’altra via. La via della cartina Kompass. La via che non esiste.
Vorrei trovare una metafora con la vita adeguata alla situazione, ma proprio non ci riesco. Sono troppo stanco e l’unico desiderio è arrivare in fondo e stare attento a non cadere. La caduta dell’ultimo minuto è sempre dietro l’angolo. Quando ho esaurito le forze, quando il fisico dice basta, c’è sempre il rischio dell’ultima caduta, quella che mi procurerà la storta alla caviglia che non mi aspettavo.
A questo punto, c’è sempre quello che se ne viene fuori con la perla di saggezza popolare: in discesa tutti i santi aiutano. Va preso, impalato e impiccato al primo albero che trovi. Non esista una balla più grossa. In discesa c’è la forza di gravità. E credimi, non ti aiuta per niente.
Esistono due cose da non dire mai in montagna. E quando dico mai intendo davvero mai. Noi usiamo mai e sempre con una certa leggerezza. Ti amerò per sempre, non ti lascerò mai. E siamo anche piuttosto bravi a crederci.
Invece in questo caso intendo davvero: mai.
Una delle due l’ho appena detta. L’altra è: siamo quasi arrivati.
Dopo ore di cammino, di fatica e prostrazione, ecco che fa capolino il bivacco, o la cima. La meta tanto ambita sembra lì, a portata, basta allungare un braccio, aumentare un pochino l’andatura, e hop! Dietro la prossima curva, o al massimo quella dopo ancora dai che ci siamo!
Poi quel “quasi” diventano due ore e tu maledici chi ti ha illuso, speri che cada in un crepaccio e maledici anche te stesso, che hai voluto farti illudere. E fanculo a tutto il resto della camminata.
In montagna si arriva esattamente quando si è arrivati. Mai prima, né dopo.
E chi ti dice “quasi” va inchiodato a testa in giù su un pino e lasciato alla mercé di corvi, formiche e forse orsi.
Troppo crudele? Fai un giro di tre ore, fatti dire “quasi” a metà della salita più pesante, quella dove ogni fibra del tuo corpo ti dice di mollare e tornare a casa e ogni singola sinapsi del tuo cervellino ormai si è sciolta in un brodo primordiale e poi ne riparliamo.

Torniamo alla gravità.
Quando dovresti stare attento, quella ti trascina giù. La discesa è una sfida costante fra la gravità terrestre e i muscoli delle tue gambe, fra la Terra e i polpacci, fra una massa enorme e le caviglie. Non puoi vincere contro tutta la Terra.
Invece no. Invece noi vinciamo. Arriviamo giù sani e salvi, al sentiero del bosco, dove la strada diventa quasi pianeggiante. Le caviglie sono salve e anche i polpacci non mordono poi così tanto.
Ricordo che dopo la prima gita della stagione, quasi non ho camminato per tre giorni. La discesa mi aveva atrofizzato la muscolatura. Stavolta è diverso. Una, due, tre volte. A forza di andare si impara anche a vincere contro una cosa così immensa contro la forza di gravità. E se qualcuno vuol trovarci una morale, si accomodi:io voglio solo arrivare in fondo e tornare a casa.
Ci fermiamo per un’ultima sosta, finiamo le scorte di tè e biscotti. Non ci sono più i miei biscotti, né la tua cioccolata, o l’acqua di tizio e caio.
Saliti in nove e due, tornati in undici. Dieci piccoli indiani al contrario. E forse non siamo più né nove, né due, né undici, ma qualcosa che è difficile o troppo semplice da definire.
E Paolo?
È rimasto in quota, a giocare con le capre e le marmotte e a scoprire se esistono davvero i marmuccelli? Tornerà mai a valle? O rimarrà là, fra quelle montagne da cui non si è mai mosso?
Un po’ lo invidio.
Giù a valle la realtà già si trasfigura e mi avvolge con il suo richiamo di brulicante frenesia. E la via della montagna sbiadisce in una valle angusta, celata agli occhi dai boschi e dai nembi di foschia che l’attraversano. E viene quasi il dubbio se sia mai esistita.
Ore 20.00. Arriviamo a valle. Quattro ore di ritardo sull’ ipotetica tabella di marcia. Ma a noi che ci frega? Spostiamo avanti di quattro ore e siamo a posto. Gli stregoni arrivano esattamente quando decidono di arrivare.
Arriviamo a valle con qualcosa che nessuno di noi aveva alla partenza. Se non è magia questa…
Un abbraccio forte, un saluto e poi via, si torna, ognuno alle proprie case.
E i Nove? Svaniranno anch’essi come spettri dell’anello, evocati da una magia antica che solo sulle cime può avvenire?
Non lo so.
Se anche non li dovessi mai più rivedere, io li ringrazio i Nove. Per la cartina Kompass, per essere alieni, per la salsiccia e la polenta, per le foto sulla neve, per le capre e i marmuccelli e per avermi cantato (le tre dell’Ave Maria), Shpalman di Elio e le Storie Tese mentre scendevamo. E per essere riusciti ad abbattere un ponte e aver attraversato il torrente al ritorno. Un’ultima avventura, quando si pensava di averle finite.
E li ringrazio anche per Paolo. Che non è con noi. Che non c’è mai stato.
Il dodicesimo apostolo del Latemar, testimone muto che da qualche parte, per ognuno, forse esiste un posto dove le cose scorrono così come fa l’acqua, in maniera semplice e leggera.

Sulla via della montagna, dove tutto esiste e basta.

 

3 Risposte a “Cercasi Paolo disperatamente”

  1. Un bel finale che ha perso leggermente dell’ironia e della demenzialità iniziale, ma credo sia voluto e credo sia una buona scelta. Come nei tuoi singoli racconti il finale in genere ti lascia lì a pensare, a ragionare… E’ come se questo pezzo fosse un enorme finale, come al solito scorrevole e dissetante come qualunque tuo scritto.
    Ottima idea postare anche la foto di tutta la compagnia dell’anello XD E’ stato un piacere leggerti! 🙂

  2. Grazie. È stato un piacere averti con me in questo viaggio. E in effetti è così: questo non è il racconto finale, ma proprio IL finale. Perché l’ironia e la stupidità sono solo un modo di esprimersi, ma l’obiettivo rimane un altro. E’ solo che sparare cazzate mi viene meglio che scrivere seriamente.

  3. L’ironia non ha niente a che fare con la stupidità… Non sempre almeno, la tua ironia non è mai stupida… Per me stupido è qualcosa di più vicino ad essere fuori luogo, è qualcosa che non costruisce nulla, che non regala nulla, che non ha alcun senso… Invece anche i tuoi “non sense” costruiscono e regalano sempre qualcosa quindi sono io che ti devo ringraziare per aver condiviso ancora un pò della tua demenza ma soprattutto del tuo animo!

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