Ulissippo e la libertà del buco del culo – parte seconda

«Avanti signor M.» disse il direttore «È ora di smetterla con questi capriccetti.»
Andava su e giù per l’ufficio, e anche se il tono di voce era calmo e rilassato come quello di un bonario paparino, la camminata ne tradiva il nervosismo. Ero seduto di fronte alla scrivania e gli davo le spalle. Non osavo girarmi. Ero preda di una paura incontrollabile, come se potesse succhiarmi l’anima o peggio. Vi chiederete se esista qualcosa di peggio che perdere la propria anima. Dopo 10 anni di cella con Hassan avevo un lungo elenco di risposte a questa domanda.
«Non posso» risposi, con tutta la deferenza possibile.
Dieci anni di prigione ti insegnano due cose. Una è chinare il capo davanti al più forte senza temere per il tuo orgoglio. E poi io, come aveva giustamente detto Ulissippo, di orgoglio non ne avevo punto. Perciò ero a posto.
Il direttore mi venne davanti e si fermò di colpo.
«Non può, perché?» disse.
«Direttore» dissi, cercando di sembrare il più impaurito possibile, cosa che non mi riusciva affatto male «Quello che lei chiama “capriccetto” io lo chiamo il mio culo. E sa, comincia a farmi male.»
Il direttore scosse il capo, come si fa con uno studente disattento.
«Lei mi stupisce. Dopo dieci anni con noi, ancora non ha imparato che il suo culo non è più suo?»
Certo che l’avevo imparato. Era la seconda cosa. Tuttavia non intendevo arrendermi senza lottare.
«Direttore, non mi importa. Dopo dieci anni comincia a farmi male. E io non reggo bene il dolore.»
Lui mi guardò con compassione. Per un istante sembrò quasi volesse accarezzarmi il viso.
«Io la capisco, sa?» disse con gentilezza.
Ne dubitavo fortemente. Lui mi fissò negli occhi, quasi volesse una conferma. Io rimasi zitto.
«Io la capisco.» disse ancora «Lei sta male e, come tutti, non vede al di là del suo deretano. Comprensibile. Umano. Tuttavia…»
«Tuttavia?»
«Tuttavia, lei ci mette in una grave situazione di disagio.»
Stavolta non riuscii a nascondere lo stupore.
«Cosa?»
Il direttore assunse la sua espressione più contrita. Sembrava un povero cucciolotto in gabbia. Cominciò a parlare di bene comune, di cose che sono più importanti di lui, di me, dei secondini. E incidentalmente, anche del mio culo. E che spesso, al singolo è richiesto di sacrificarsi per il bene comune. E, sempre incidentalmente, sta a vedere che il singolo ero io. E dovevo offrire il mio didietro ad Hassan, perché quel maledetto assassino psicopatico aveva bisogno di sfogare la sua rabbia e le sue frustrazioni.
«Altrimenti» proseguì il direttore «quello ammazza qualche compagno di cella o ci scatena una rivolta. E lei non vuole avere sulla coscienza la morte di un altro essere umano, vero?»
L’appello alla coscienza, così poco utilizzata durante la vita quotidiana, era sempre un motore potente. Sentivo sorgere, ai margini dimenticati del mio animo, una sottile ma insistente sensazione di colpevolezza. Se la giocava bene con il bruciore che permeava il mio culo come un cellofan, da dieci anni a questa parte. Era quello il problema: al dolore del buco ti ci abitui anche, alla fine lo consideri normale, un vecchio amico che se un giorno decide di lasciarti, non dico che ti dispiace, ma almeno ti domandi un po’ il perché. Ma il senso di colpa…a quello non ci si abitua mai!
«Non farti fregare.» disse Ulissippo.
Era in piedi accanto al direttore, vestito come un koala. Mi stropicciai gli occhi. Il direttore era vestito come un koala. No, Ulissippo era vestito da direttore, il koala era vestito da secondino. E il direttore era Ulissippo!
«Non sapevo che passassero roba così pesante in prigione. Cosa mi sono perso!» disse il koala.
O Ulissippo vestito da koala. Ed era accanto alla mia branda, sulla quale stavo sdraiato. L’ufficio del direttore era sparito.
«Che cazzo succede?» dissi.

– FINE SECONDA PARTE –

PS: sì, sono tutte corte così le prossime. L’illusione è durata solo con la prima.

 

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