In nomine patris

Non c’è nessun Dio. Tuttavia non siamo soli.

Non riesco più a dire “nel nome del padre”.
Proprio non ci riesco. Un tempo, forse. Ora non più.
Non la comprendo più tutta questa gente. Cosa le spinge, queste cento, duecento, trecento persone, ad assieparsi tutte attorno a quattro ceri, a delle immagini immobili, racchiuse fra le colonne di una navata?

C’è come una corrente che le attraversa tutte, grandi e piccini, giovani e vecchi. Qualcosa che le accomuna, che va oltre i significati di ciò che vedo. Qualcosa di invisibile agli occhi.
Io li guardo e non comprendo. Vedo solo quattro ceri, una croce, un prete in bianco e viola che predica da un pulpito. Neanche tanto bene, secondo me.
Un velo di tristezza mi assale, come una nostalgia. Come per qualcosa che non riesco ad afferrare. Non è sempre stato così.

Funerale. Una parola che mette tristezza.
Perché la morte è triste. E perché mi tocca entrare in una chiesa. La politica aziendale impone di essere presenti al funerale del padre di una collega. In realtà non ho nulla in contrario. Anzi, ho caldeggiato io stesso la proposta. Però la chiesa…la chiesa incombe con la sua santa mole e i suoi riti avvolgenti. Santi pure quelli.
Faccio i primi due passi oltre la soglia e mi fermo. C’è un campo di forza, come quelli dei film di fantascienza.
“Questo è il mio massimo di penetrazione in una chiesa” dico.
Chiesa e penetrazione, non so nemmeno se si possono usare nella stessa frase.
Alice nicchia con la testa e si ferma accanto a me.
“Anche il mio” dice. Rimaniamo lì tutta la funzione. C’è tanta gente, così tanta che le porte rimangono aperte. Il vento freddo dell’inverno mi si struscia sulla schiena. Potrei entrare nella calca, ma preferisco il freddo.

Partono i riti, partono le parole, partono le litanie mormorate a voce bassa.
C’è tutto il paese lì dentro. Tutti sono venuti, ognuno per motivi propri. Ognuno col suo bagaglio di esperienze, di vissuti, di ricordi, persone diverse venute per un solo obiettivo: rendere omaggio al morto. Stringere le mani ai vivi.
Il prete dice tante cose. Me le perdo quasi tutte. C’entrano sempre cose come Dio e la pace in terra, Dio e la serenità, la felicità, l’amore. Dio e qualcosa di bello che vorrei avere.
Il filo sottile che lega le persone si fa sempre più forte. La folla ora è un’assemblea. Un organismo che pulsa, con una vita propria. Assiepata ai piedi di un altare, a sentire un prete che dice che il conforto in questa vita sta in quell’essere lassù nel cielo. Conforto qui, guardando lì. Non ce l’ho con Dio, sia chiaro. E’ che non capisco.
E riprovo quella fitta di dolore, la nostalgia di una perdita antica. La solitudine, ecco che cosa ci ammazza tutti. Sono solo, in una chiesa gremita di persone.
Il prete ora ricorda. Ricorda l’uomo che giace nella bara. L’ha conosciuto a scuola, da ragazzi.
Il ricordo è vivo, e per un attimo risveglia l’interesse del mio cervello assopito dalla litania.
Ci prova, il prete di campagna. Dice cose normali, scontate. Banali. Era un brav’uomo. Era uno che chiedeva sempre la ragione delle cose. Era uno che ha portato la sua croce, il suo dolore, senza lamentarsi. Un ictus più di 20 anni prima. Poi la laurea, la famiglia, vite da portare avanti. Infine, il cuore decide di improvvisarsi acrobata da circo, e lo stronca. Dopo settimane di su e giù, di attacchi e di riprese, una di quelle morti che ti fanno dire: finalmente se n’è andato in pace.
Ha portato la sua croce. Quanti lo hanno fatto a questo mondo? E quanti lo faranno ancora? Non è già di per sè, portare il fardello di dolore proprio e altrui, un atto di eroismo?
Dovrebbero scrivergli canzoni, leggende, un’intera saga epica solo per lui. Una saga per ognuno.
Sei miliardi di saghe.
Il prete continua nel suo ricordo. Ce la mette tutta, ma non riesce a staccarsi dal modello cantilenante da predica che anni di servizio gli hanno inculcato. Quello che ti ricorda quanto ti devi vergognare per le tue mancanze e quanto devi ammirare chi e quando per aver fatto cosa. Che poi, in chiesa si ammirano sempre e solo i morti. Oppure i santi. Che son morti pure quelli. Però per noi, soffrendo, sulla croce. Amen.
“…è un esempio per tutti noi, che dobbiamo imitare…”
Eccallà. Un esempio. Dobbiamo.
Non posso semplicemente godermi quel racconto, così umano, nonostante il tono da litania moraleggiante? Non posso solo commuovemi per la commozione, per un amico che sta dicendo addio ad un altro? Ma non è che ce l’ho con il prete bianco e viola, davvero. Non parlava certo così, prima di impretarsi. Nato contadino, vissuto fra i campi gelati di un paesino di montagna. Col cacchio che parlava così. Chissà quanti anni ci avrà messo a diventare un perfetto esponente della coscienza morale del popolo. Forse il popolo stesso, il popolo del  paesino di campagna, l’ho voluto così.
Perciò lui non riesce a esimersi dal lanciare moniti o lezioni, anziché interrompersi a metà discorso, con gli occhi lucidi e dire: “era un amico. E ora devo dirgli addio”, e farsi un bel pianto.
Pazienza. Io comunque, nonostante la mia distanza dall’altare (e non solo in termini di metri), questa cosa la capisco. E la capiscono pure tutti gli altri.
Una persona è morta. E noi stiamo tutti qui, assiepati, gli uni sugli altri, col freddo, con la tristezza, con il dolore, col male al piede perché non mi siedo da un’ora, con il prurito alla testa, con le mani che non so dove metterle, se nella tasca della giacca o dei pantaloni, che però in chiesa pare brutto anche a me, insieme con tutte queste cose, a dirgli addio.
Anche se io manco lo conoscevo mi stringo anch’io nel cerchio delle vite attorno a quella bara.
Mi vengono persone in mente. Una persona cara. Due bambine sorridenti. Persino un cane, pensa te! Mio padre, mia madre. I miei amici. Un intero universo mi circonda. Circonda me, circonda gli altri.
Mi trovo a pensare cosa direi io, se morisse mio padre. Che dirò, quando morirà?
Sicuramente sarò triste. Ma niente sermoni, please. Mi si seccano le palle già a pensarci.
Il prete mi verrà imposto, su questo non ci piove.
Gli dirò: “guardi padre, mio padre era credente, io no, perciò facciamo pari e patta: lei fa il suo sermone, ma breve, che al resto penso io.”
Mia madre starà piangendo e non riuscirà a spiccicar parola. Mia sorella, pure. E quindi toccherà a me. D’altronde, non ha senso che ne parli il prete. Lo conoscerò ben meglio io mio padre, no?
“Mio padre era un uomo” dirò “Ha fatto tante scelte, giuste, sbagliate, così così. Ha amato, ha sofferto. Ha dato poco, ha dato tanto. Non ha fatto tante cose, a dire il vero. Quelle che ha fatto sono belle. Io ne sono la prova.”

Grazie.


10 Risposte a “In nomine patris”

  1. Mi piace molto Matteo, il tuo stile……era da un pò che non ti leggevo….bello proprio. Chi è che pensa di chiudere il blog???????

  2. La chiusa è grandiosa. A mio giudizio, una delle tue migliori. Per il resto, resti sempre uno dei miei scrittori preferiti.

  3. @Gioia: Grazie. Anche se non reputo tutto ciò “scrittura” (v. sotto).
    @Vania: queste sono solo pippe autobiografiche. Sto cominciando a stufarmi di raccontarmele. Tanto io le so già. Ma staremo a vedere. Contraddirmi è il mio passatempo preferito.

  4. Tu le sai già, ma noi no… Anche quando ti sembra di raccontare qualcosa di ovvio, qualcosa di già detto, qualcosa che secondo te non ha alcuno scopo… E’ un’illusione, non è così. Ognuno vive le cose in modo differente, e viverle attraverso la tua lente di ingrandimento è un viaggio stupendo che apprezzo sempre leggendoti. Ti viene naturale, scrivere e comunicare intendo, non credo ti libererai tanto facilmente del tuo blog… Potrebbe causare una rivoluzione, tu potresti finire male… (si questa è mafia, esatto XD). Prenditi le pause che ti servono ma lasciaci questo angolo di Matty per poterti trovare quando vogliamo, grassie 😀
    Ah già il racconto…
    Mi spiace tanto per la tua amica…
    E’ stato un gran piacere leggerti, sono stata qualche mese fa al funerale di un uomo che non conoscevo, padre di un uomo che conosco poco e mi sono ritrovata nelle tue stesse sensazioni. Mi sembrava di essere un alieno in quella chiesa, ma forse perché non ci entro da una vita… Bianco e viola, è quello che ricordo di più. Ma siamo noi malati di mente che ci soffermiamo sul colore della tunica o lo fanno tutti? XD Io in realtà apprezzo moltissimo l’usanza del funerale, l’essere tutti insieme uniti nel dolore… Sono le frasi fatte e le stesse parole che hai elencato a farmi venire il prurito. Ne ho visto uno solo davvero commovente, forse perché quella ragazza l’ho vista fino al giorno prima, non so… Ma il prete non l’ho sentito praticamente per niente, hanno parlato di continuo le persone che la conoscevano… Niente suonava di già detto, tutte le parole erano pesanti e toccanti, seppur nella loro semplicità. Poi beh ha suonato un mio amico per lei e tutto è stato tanto doloroso quanto stupendo… Questo per me è un vero funerale… Il racconto è stupendo e il finale come sempre lo adoro, sono d’accordo con Gioia, tra le migliori…
    Ok il commento è lunghissimo e i miei allenamenti contro la logorrea non servono a nulla vedo -.-
    In sintesi mi è piaciuto, mi piace meno la tua pazza idea di abbandonare il blog ( ti ricordo che sono co-amministratrice e avrò pure un 2 % di voce in capitolo? )

  5. Ciao pazzerella, grazie del lunghissimo commento. Il giorno che imparerai il dono della sintesi è ancora molto lontano, per fortuna!
    Un tempo avrei detto che questi commenti erano il motivo per cui scrivevo, ma ora…ora qualcosa sta cambiando. Il blog è un mezzo per un obiettivo, ora quell’obiettivo sta cambiando. Non è ancora cambiato, ma lo farà, prima o poi. E quando accadrà, non avrà più senso di essere.
    Ma tu non preoccuparti: continuerai a leggere tutto quello che uscirà dalla mia tastiera, com’è sempre stato.
    Certe cose non cambiano.

  6. Mal che vada, aprirò un nuovo blog tutto per te. Lo chiamerò “Blogpersimonettaepochialtri”. Che ne dici?

  7. Aahhahah! Direi che ogni tanto hai delle ottime idee… Anche se vagamente sembra un blog per idioti… Non so se è per “simonetta” o per “pochialtri” o per tutto XD

  8. Non è un mistero che annoveri Matteo Saltori fra i pochi blogger di cui apprezzo creatività e stile letterario. Difatti anche questo scritto è interessante almeno per due ragioni:
    – racconta un fatto da una prospettiva soggettiva che diventa riflessione estesa e omnicomprensiva delle molteplici sensibilità dei lettori che vi si avvicinano alla lettura;
    – ha un mood suggestivo, frutto della prospettiva di agnostico e/o ateo triste a solo di fronte al mistero della vita e della morte.

    Ed è su questo ultimo aspetto che suggerirei all’autore un cambio di prospettiva. Se non hai la “fortuna” di avere un brandello di fede (che in fondo è un dono e non tutti ce l’hanno), perché non provi ad avere un minimo di speranza? Non dico di “credere”, ma di “sperare” che il tuo cervello è limitato e che in fondo “ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia”…

  9. Grazie della lettura e del bel commento.
    Ho apprezzato l’analisi e anche il suggerimento, che aprono entrambi elementi di riflessione pressoché infiniti.
    La prima cosa che mi colpisce (e che non smette mai di stupirmi) è come ogni persona che legge interpreti a suo modo, del tutto personale, le intenzioni di chi scrive. Forse leggendoci una parte di sè. Non lo so, è un piccolo “mistero” della scrittura che mi affascina moltissimo.

    In quanto alla fede e alla speranza…argomenti mica da poco!
    Per me la fede non deve coincidere necessariamente con la credenza in una divinità, o con la proposta del divino che posso trovare all’interno della tradizione cattolica. E anche la speranza è variamente interpretabile. Contro l’idea comune che sia una cosa buona, ritengo la speranza un mero mondo di illusioni che si autoalimentano. Come dice il detto:” la speranza è la moneta dei poveri”. Cioè, di chi non ha nulla e quindi, almeno, “spera” che qualcosa di positivo gli accada.
    Diverso è l’avere una vita progettuale. Io lotto per questa, ben consapevole dei miei limiti intellettivi e filosofici (e pure troppo, anzi…).

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