Il demone della spada dell’elfo – prima parte

“Le avventure di Fair Ardagh”

Dall’ alto della sua scomoda posizione, Fair osservò con disgusto il branco di orribili gnometti radunarsi sotto di lui e guatarlo con occhi maligni.
Come diavolo era finito appeso a quel trespolo, legato come un salame a mo’ di premio per quell’orrida masnada di esserini rinsecchiti?
Col sole nascente negli occhi e un ematoma dolorante alla testa, tentò di dissipare le nebbie dei ricordi, al momento ancora piuttosto fitte e andò indietro nel tempo, in una gelida serata senza stelle, di fronte ad un cadente edificio da cui sventolava, cigolando, un’insegna ormai sbiadita…

Entrando nella locanda a Fair vennero in mente due cose.
La prima, che per un elfo bello e affascinante come lui quel posto era veramente degradante. La seconda, che era un eroe e come tale poteva fare più o meno ciò che voleva. Quindi anche andarsene.
Purtroppo aveva ormai accettato il denaro e ora non poteva più tirarsi indietro. Insomma, anche lui conservava un minimo di etica, quel tanto che bastava a classificarlo nella categoria dei “buoni”, ammesso che tale categoria potesse effettivamente esistere. Per l’ennesima volta, i cattivi erano il suo bersaglio. D’altronde, non si è mai visto un buono che va a caccia di altri buoni, no?
Tucas Peak era un minuscolo villaggio di boscaioli.
Uno scarno emporio, una stamberga che il proprietario spacciava per una locanda e alcune decine di capanne. Ah, già, c’era anche il bordello.
Una cosa che non finiva mai di stupirlo era che, in qualsiasi luogo si andasse, anche il più desolato e solitario, poteva mancare tutto, ma il bordello proprio no.
Tucas Peak era l’ultimo avanzo di civiltà in quei boschi solitari e selvaggi e poi iniziava la barbarie. Certo, definire civili quei rozzi e barbuti boscaioli era un’affermazione un tantino opinabile.
In effetti una certa differenza con gli orchi delle montagne c’era (se non altro perché i boscaioli di Tucas Peak una o due volte all’anno si lavavano), ma le differenze, almeno per quel che ci capiva Fair, finivano qui.
Era chiaro come fosse capitato nel periodo di astinenza dai lavaggi.
La stamberga era ammorbata da un odore intenso e pungente di fumo, sudore, alito cattivo, alcool e non si capiva bene quali altre schifezze.
Per la propria tranquillità interiore Fair decise di non porsi altre domande e di fare buon viso a cattivo gioco.
Più facile a dirsi che a farsi.
Va bene, c’erano dei grossi pregiudizi verso gli elfi, soprattutto nelle zone di frontiera. Pregiudizi meritati, beninteso, ma al momento giocavano tutti a suo sfavore.
Non ci volle molto, infatti, che un bestione grosso e lurido, con la mano saldamente ancorata all’impugnatura del pugnale, gli piazzasse davanti la sua mole, comprensiva di alito da birra e ascelle gocciolanti.
Fair rimase immobile. Lo sfiorò il sottile dubbio di non essere esattamente il benvenuto.
L’ominide lo squadrò da capo a piedi con un ghigno che definire ostile sarebbe stato riduttivo.
“E’ vero o no che gli elfi sono stati vomitati fuori dalle fiamme dell’inferno? – chiese.
Fair trattenne il respiro, più che altro per la puzza e si mise a contare mentalmente fino a dieci. Si fermò al quattro perchè era troppo pigro per arrivare in fondo.
In ogni caso, riuscì a controllare la voglia prepotente di sfoderare Maklaad e staccare la testa a quel buzzurro, tanto per insegnargli le buone maniere.
Se l’avesse fatto, poi si sarebbe trovato tutti contro e avrebbe dovuto fare una carneficina.
E se uccideva tutti, a chi le chiedeva le informazioni che gli servivano?
Quindi, da buon diplomatico, ignorò il troglodita e si avvicinò al bancone.

“Vorrei una stanza.” – disse, rivolgendosi al locandiere.
Quello lo squadrò con un’occhiata di aperta ostilità che sembrava una dichiarazione di guerra e con voce gutturale rispose:
“Non abbiamo più stanze libere.”

Tradotto, torna a casa, qui non ti vogliamo. Era un messaggio molto chiaro, come era chiaro che in quella bettola non potevano esserci stanze occupate.
Non arrivavano visitatori a Tucas Peak, né commercianti, né giocatori di poker, né soldati di ventura e nemmeno ladri e briganti. Persino questi ultimi di certo preferivano essere catturati in un luogo civilizzato piuttosto che rischiare la vita in quel posto dimenticato da tutti gli Dei, nessuno escluso.
Purtroppo Fair era costretto a rimanerci, almeno per quella notte.
Pensò quindi fosse giunto il momento di sfoderare le sue magnifiche arti di persuasione. Mise la mano sotto il mantello ed estrasse con un gesto sapiente e studiato la saccoccia.

“Scommetto che riesci a liberamene una.” – replicò e la saccoccia tintinnò, come per confermarne le intenzioni.
Il locandiere deglutì a quel suono argentino. Il suo sguardo tradiva fin troppo bene il lacerante dilemma interiore fra l’atteggiamento di aperta ostilità e la brama di denaro.
Inutile dire chi vinse.
Quella notte Fair poté dormire su una branda della rinomata “Locanda al Porco Castrato.”
A dire il vero non riposò più di tanto, perché il letto era vecchio e scomodo e il pavimento pericolante scricchiolava ogni volta che gli scarafaggi lo attraversavano tutto.
Se non altro, questo gli permise di sentire i passi pesanti di numerosi individui fuori dal corridoio. La porta si aprì cigolando e sull’uscio comparvero tre inquietanti figure armate di mannaia.
Fair capì che sbandierare i propri averi non era stata proprio l’idea più geniale del mondo.
Sbuffò, estrasse Maklaad e macellò senza fatica i tre poveri imbecilli. Ritornò a letto piuttosto scocciato e non riuscì a chiudere occhio per il nervoso.
La mattina seguente l’oste non disse una parola, ma il suo volto impallidito sembrava già abbastanza eloquente. Nemmeno Fair disse nulla e quando scese a fare colazione evitarono tutti di guardarlo.

“Ho bisogno di un’informazione! “– chiese al taverniere quando quello gli servì la colazione.
L’uomo finse di non sentirlo e sgattaiolò via.
“Che genere d’informazione?”
Chi aveva parlato era un vecchio trasandato, seduto ad un tavolo lì accanto, che trangugiava come fosse acqua un’enorme pinta di birra.
“Cerco una persona.” – cominciò cautamente Fair.
“Se la cerchi a Tucas Peak, allora non devi andare più in là di quella porta! “– grugnì stizzito l’uomo e indicò con un ampio gesto eloquente gli avventori che infestavano la taverna.
“Non credo sia qui…avete mai sentito parlare di…”
“No! “– lo interruppe il vecchio – “E ora puoi anche andartene!”
“Ma non mi hai nemmeno lasciato finire!”
Un altro, un forzuto col grugno da orco si alzò e squadrò Fair con aria ostile.
“Tutto ciò che cerchi fuori da Tucas Peak, non ci interessa! “– ruggì.
In risposta da tutto il locale giunsero grugniti di solidarietà.
L’elfo radicò sempre di più il convincimento di trovarsi in una porcilaia. O in un luogo similare.
Anche altri si erano alzati e lo stavano squadrando. Era chiaro il senso del messaggio, com’era chiaro che avessero saputo della sorte notturna toccata ai loro tre compari.
Ci fu un istante di drammatica sospensione, poi uno di quelli sputò in terra ed estratto un corto spadino, si avvicinò.
Fair constatò che anche gli altri avventori stavano maturando intenzioni simili.
Dodici, almeno questi erano quelli che vedeva al momento. Comunque, per ora potevano bastare.
Si chiese se fosse il caso di intimare loro la resa ed evitarne l’estinzione, poi l’orda gli saltò addosso e gli impedì di realizzare quei progetti umanitari.
Dapprima cercò di evitare un paio di stilettate qua e là, poi capì di non avere scelta.
Con un sospiro, sfoderò Maklaad.
Fu il massacro.

I boscaioli erano forti e robusti, ma mancavano di tecnica, in cui invece Fair eccelleva.
Le teste iniziarono a volare qua e là e il sangue tinteggiò le pareti in più di un punto.
C’è da dire che Fair, resosi conto della propria indiscussa superiorità, tentò di limitare i danni al massimo, ma un guerriero è pur sempre un guerriero.
Così, dopo le prime tre-quattro teste, si decise a recidere braccia e gambe e la cosa non gli riuscì troppo male.
Dopo pochi minuti, la puzza del locale si era trasformata in un orribile odore di sangue e di carne viva. Numerosi ominidi barbuti giacevano in terra rantolando, cercando pezzi dei loro arti dispersi sul pavimento del locale.
Due di loro litigarono perfino per un braccio, che entrambi credevano di loro proprietà e per questo si scannarono.
Nessuno rivendicò più il possesso di quel braccio.

Fair rinfoderò la spada, nonostante i tremiti di furore e di eccitazione lo attraversassero ancora. Avvertiva il prepotente desiderio dell’arma di uccidere e si domandò, con timore, se quel desiderio non fosse anche il suo.
Dato che era un introspettivo, come tutti i bravi protagonisti di storie fantasy (a parte Conan il barbaro), concluse che in effetti quello sterminio era da imputare solo in parte al controllo che Maklaad aveva su di lui durante una lotta. Ma la cosa non lo preoccupò. In fin dei conti, cos’erano una dozzina in più o in meno di boscaioli nell’immenso ciclo dell’esistenza?
“Ma come sei cinico! “– stridette la spada – “Non sono tanto sicura che un eroe debba fare simili ragionamenti.”
“Zitta, che ti sei solo divertita!”
“E ora che sono tutti morti,” – proseguì l’arma, saccente –” Che intendi fare?”
“Il taverniere è ancora vivo, ammesso che non si sia suicidato. “– rispose l’elfo e si diresse verso le cucine.
Lì trovò il gestore, rintanato sotto un tavolo. Tremava come un budino e pregava con poca convinzione non si sa bene quale divinità.
Fair lo tirò fuori senza troppa delicatezza. L’oste fu più conciliante degli altri e diede all’elfo le informazioni che desiderava.
Fair se ne uscì dalla locanda, sbuffando della stupidità tipicamente umana.
Alle sue spalle rimase solo il locandiere, immerso nel sangue di oltre una mezza dozzina di cadaveri.

8 Risposte a “Il demone della spada dell’elfo – prima parte”

  1. Mi ha davvero divertito! È un inizio ben scritto e anche sprizzante d’ironia. I tuoi personaggi mi hanno strappato più di un sorriso. Il protagonista, Fair, poi promette proprio bene. Spero che scriverai il seguito delle sue (dis)avventure… Mi piacerebbe continuarne la lettura.

  2. Molto bene, direi!
    Il testo mi ha proprio incuriosito, visto l’antefatto, aspetto il seguito, il titolo poi fa presagire che la spada sia, insieme a Fair, la protegonista delle avventure che hai appena iniziato a narrare.
    Il genere fantasy è uno dei miei preferiti e questo testo dimostra, ancora una volta le tue doti poliedriche di scrittore. Sviluppi molto bene anche la parte descrittiva, che non + troppo lunga, ma fa ben immaginare al lettore i luoghi, l’aspetto dei personaggi, l’ambientazione. La forma è molto scorrevole e segue un ritmo equilibrato. La scelta dei vocaboli è accurata e non manca quella punta di sarcasmo e di ironia che ti contraddistingue. Questo rende la narrazione più leggera, divertente e quindi non scontata. ora mi aspetto di leggere il seguito, me lo merito!
    Come vedi, mi dico tutto io, senza attendere la tua risposta!
    Inutile dirti che mi è piaciuto parecchio, BRAVO!
    Alla seconda puntata, allora,

  3. Credo di poter accontentare entrambe, dato che questa è una storia in tre parti, e nel giro di un paio di settimane la pubblicherò tutta.
    Mi fa piacere che vi piaccia Fair Ardagh. E’ un personaggio tirato fuori dal cassetto dei ricordi. Questo racconto risale infatti a 12 anni fa, quando smisi di scrivere – allora pensavo – per sempre.
    L’ho ritrovato, l’ho rimaneggiato un pò…et voilà!
    Vedremo dove mi porterà.
    Per intanto, vi aspetto alla seconda puntata!
    Ciao.

  4. Qui il pubblico aspetta la seconda parte!
    A quando?
    Non farci troppo attendere, io non sono più così giovane!
    Ciao, ciao Daina

  5. Il pubblico dovrà attendere. Avendo scritto 3 racconti in un giorno, contro l’uno alla settimana che avevo intenzione di postare, il buon Fair Ardagh dovrà attendere il suo turno.
    Inoltre, altre e precedenti richieste mi impongono di terminare quello sul concerto dei Megadeth.
    E suvvia, che non sei così vecchia!
    A presto!

  6. Tanto per cambiare sarò breve: mi piace moltissimo, trasuda ironia e questo elfo è davvero fuori dal comune.

I commenti sono chiusi.

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