Vacanze in A4

Ho sempre avuto la tendenza a considerare il viaggio come un orpello, il fastidio necessario a raggiungere l’agognato luogo di vacanza. La vacanza inizia quando finisce il viaggio. E stop.
Ci sono le eccezioni.
Il viaggio come orpello può andare bene per un giretto sul monte Zugna, a venti minuti da casa mia. Quando il tempo stimato è otto ore, diventa un discorso pericoloso. Pericoloso perché non includere il viaggio nel tempo della vacanza rischia di farlo sembrare eterno, difficile e portatore di immancabile tensione.
Il viaggio di cui vi sto per parlare è quello fatto per andare in vacanza sull’isoletta croata di Silba. Un viaggio che non è stato un semplice spostarsi da qui a lì, ma una vera e propria sfida. Una cosa che ci ha mandato ben oltre i nostri limiti. Ma andiamo con ordine.


Google Maps dice che ci vogliono poco più di sei ore, il che è assurdo. Google Maps dice tante cose, ma non considera le pause pipì all’autogrill, le pause cappuccino all’autogrill, le pause rifornimento, sempre all’autogrill. L’autogrill è un misto fra il triangolo delle Bermuda e la manna dal cielo. La qualità del cibo è anche più o meno lo stesso.
L’autostrada è un’invenzione geniale. Accorcia i tempi, aumenta l’inquinamento a livelli stratosferici e ti fa odiare tutti gli umani che non vanno in giro a piedi o in bicicletta.
Io odio l’autostrada.
Sono sempre teso da quando entro a quando esco. Troppe auto, troppa velocità, troppi camion e soprattutto, troppi che fanno quello che non dovrebbero fare.
L’autostrada A4 è un alligatore di asfalto a tre corsie. Noi la prendiamo a Verona e ce ne facciamo una buona metà, fino a Venezia.
Uno pensa che ci sia una logica nelle tre corsie. Le tre corsie in autostrada pensi, devono essere come i dogmi della Chiesa Cattolica. Niente sesso prematrimoniale, famiglia fondata sull’unione di uomo e donna, niente sesso orale. In realtà non so bene quale sia la posizione ufficiale della chiesa cattolica sul sesso orale. Immagino che sia quella canonica, in ginocchio.
Il fatto è che sono degli assiomi, semplici, concreti, diretti. È un mondo ordinato, un mondo nel quale ognuno ha il suo posto e sa dove andare. E uno dice, che bello! Anch’io voglio un mondo ordinato come un’autostrada a tre corsie, dove la prima la usano i camion, la seconda per chi viaggia sostenuto e la terza la lasciamo ai sorpassi o per chi è in iper velocità costante.
E poi che succede? Che un sacco di cristiani si fanno una bella serie di trombate prima del matrimonio. E spesso anche fuori. Che usano pillola e preservativo anche all’interno della sacra unione. E che dire di quelli che continuano a giocare alla versione live di Sodoma e Gomorra? Del resto non parlo, finirei per aprire il vaso di Pandora.
L’A4 è come i dogmi della chiesa, ai tempi della proliferazione del peccato.
I camion sorpassano. Lo so, è dura da accettare.
C’è una fila di camion ai 90 all’ora e uno decide di passarli via tutti. Non si sa perché. Non si capisce quali vantaggi gliene derivano, dato che continuerà a fare i 90 come gli altri. Con sommo sprezzo di tutti gli automobilisti che credono nel Grande Disegno, il camionaro apostata tenta il sorpasso. È un duro e i duri, si sa, non mettono la freccia. O lo fanno solo dopo aver invaso almeno metà della corsia opposta.
Le auto che sfrecciano fra i 110 e i 130 si trovano davanti un bestione da dieci tonnellate che va a 92 km all’ora, la velocità massima che riesce a raggiungere a pieno carico (già andava a palla). Per i seguenti venti minuti, ovvero il tempo medio che impiega a superare tutta la fila dei suoi confratelli, il camionista eretico invalida da solo l’utilità delle tre corsie.
L’autostrada ora è un pericolosissimo imbuto a due.
Tanti evitano lo schianto con una bella frenata. I giri del motore vanno giù in caduta libera e quando li tiri su, eviti di ricordare che il connubio estate e prezzi carburante non è mai a tuo favore.
Chi non frena, e sono tanti, passa nella terza fila. Stessa scena. Bolidi a velocità Warp si trovano bloccati da scatolette ai 130 all’ora. E stavolta, non possono cambiarla la corsia.
L’alligatore si contorce. La pericolosità aumenta al calare repentino della velocità (il dogma della distanza di sicurezza in questi frangenti viene infranto più del sesso prematrimoniale), e il gap fra velocità ottimale e velocità che sei costretto a tenere è un indicatore preciso del tuo livello di incazzatura e di odio.
Poi ci sono le auto acrobate, quelle che sorpassano a destra, per poi infilarsi a sinistra, perché hanno l’auto potente e loro possono. E speri sempre che lo zig zag schizofrenico si concluda sul guard rail.
Poi ci sono quelli che, quando il traffico ristagna, tentano un sorpassino sulla corsia di emergenza. Solo qualche chilometro, niente di più. Sono pochi, ma fanno la loro figura.
Poi ci sono le moto, che non capisci mai su che corsia stanno. Tanto loro sono piccole e non occupano spazio, no?
Poi ci sono quelli che quando sorpassi ai 140 (l’auto di Ilaria ai 150 mette le ali, ma poi non ha il paracadute), ti sfanalano anche e soprattutto nella notte, perché per loro il freno lo usano i perdenti. E in fondo li capisco.
Mica ti compri una macchina che va ai 250 e che ha più cavalli di tutto il fottuto Texas, per rispettare i limiti dei 130! Macchina grossa, velocità grossa, tutto grosso. Altrimenti poi sfiguri di fronte alla gnocca di vent’anni più giovane di te, che insiste a dichiararsi tua moglie, ma che sai benissimo per quali doti ti ha scelto.
E se anche tutto questo andasse bene, ci sono gli eterni lavori in corso che trasformano l’autostrada in una mulattiera, con limiti fra i 60 e gli 80. Tuttavia continui a pagarla come se fosse a tre corsie.
In conclusione: odio l’autostrada. Odio le tre corsie, odio il tratto Verona-Venezia. Dopo, fino a Trieste, le cose migliorano. Ci sono meno camion, e anche con le due corsie del friulano si viaggia abbastanza bene. Ma il mio odio rimane, imperituro, finché non si esce almeno su una strada statale. E con l’odio, un bel po’ di tensione che non riesco mai a sbollire. Insomma, mi stanca tanto l’autostrada.

Dopo questa lunga digressione, torniamo all’argomento principale: il viaggio.
Il viaggio è da Rovereto a Zadar, in Croazia. Lì lasciamo l’auto e prendiamo il traghetto fino a Silba. Non ricordo nemmeno più quanti chilometri sono. Poco più di seicento, ma potrei sbagliarmi.
Per me sono tanti. In ogni caso, abbastanza da non poterli considerare un orpello.
Perciò ci prendiamo per tempo. Prenotiamo un ostello a Zadar e decidiamo di partire il venerdì mattina, con tutta calma, arrivare, trovare un parcheggio dove lasciare l’auto per tutta la settimana, sempre con tutta calma, andare a dormire nell’ostello, la mattina dopo svegliarci, con tutta calma, fare colazione in un bar di Zadar, che ha un bellissimo centro storico e poi prendere il traghetto delle undici. Sempre con tutta calma e dopo aver smaltito, grazie alla bella dormita, la fatica del viaggio. Tutto in letizia e armonia.

A questo punto i più sgamati di voi si staranno chiedendo: ma se è andato tutto così liscio, perché ce la fai tanto lunga?
Non voglio anticiparvi niente.
Partiamo venerdì mattina, con tutta calma, verso le nove o le dieci. L’autostrada è come l’ho descritta, ma tanto non abbiamo fretta. Arriviamo a Trieste. Usciamo dall’autostrada e passiamo il confine. Pochi chilometri attraverso la Slovenia, lungo una strada di montagna, fra boschi, paeselli e colline. C’è un po’ di traffico, non si può superare. Sono un po’ stanco, ma non c’è problema. Non abbiamo fretta. Siamo partiti molto presto, ce la possiamo prendere con calma.
Arriviamo al confine croato. Ci sono le guardie di frontiera.
Il poliziotto croato ci guarda in cagnesco, come farebbe qualsiasi poliziotto croato. Non risponde al mio timido “buongiorno” e dice solo:
«Passport»
Senza please.

Ero teso per questo viaggio. Non avevo mai guidato così tanto. Non avevo la mia auto. Non sapevo se ce l’avrei fatta. Non ero mai andato in un paese dove non si parla italiano e dove non si usa l’euro. Ok, sono stato in Cina, ma lì mi facevo scortare. Questa è un’altra storia.
Avevamo tanti dettagli da controllare. Le provviste per il viaggio, perché non mi andava di fermarmi a pranzare, una buona quantità d’acqua, che se fa troppo caldo e magari c’è coda che si fa? Tutti i vestiti da portare dietro, che non si sa mai cosa ce ne portiamo tanti a fare, io poi uso solo due costumi da bagno e un paio di t-shirt. Ore di studio del tragitto, comparando la cartina 1:800.000 con la mappa di Google, stampata per l’occasione, quindici fogli A4 che stanno fra le balle e che non coincidono con la mappa, e poi sempre questo numero 4 che ritorna a ossessionarmi. È il numero porta sfortuna cinese, lo so perché ci sono stato e 4 è peggio del nostro 17. Ok, qui non siamo in Cina, ma nemmeno in Italia e non si può mai dire.

«Passport.»

Ilaria tira fuori la sua carta d’identità e io frugo nel borsello, frugo nel portafoglio e frugherei nell’auto, ma non è la mia e quindi è improbabile che la mia carta d’identità sia nel cassetto del cruscotto. Alla fine ci frughiamo lo stesso.

«Scusi, non le basta la patente?» dico io, con quel lumicino di speranza che ti fa dire “dai che ce la possiamo fare”.
L’irremovibile poliziotto croato tuona un meno conciliante:
«Passport» e rimane in attesa.

Io detesto la carta d’identità. È scomoda e mi occupa un sacco di spazio inutile nel portafoglio. Tanto basta la patente. E così spesso la lascio a casa.
Fra tutte le cose che ci siamo ricordati di non dimenticarci, hai ricordato di prendere questo, ti sei ricordata quest’altro? Ilaria ha dimenticato di dirmi: “ti sei ricordato la carta d’identità?” e io ho dimenticato di dirlo a me stesso.
Insomma, è a casa. La dannata carta d’identità è a casa.

«Passport.»
Faccio “no” con la testa e sorrido, che la speranza è sempre l’ultima a morire. Magari c’è un modo. Magari.
Lui ruota la mano, come quando afferri qualcosa e le fai cambiare direzione e accompagna il gesto, già esplicativo di suo, con un irremovibile:
«Tornare indietro» e ci aggiunge anche un beffardo «Go home.»

Faccio quattro o cinque metri in terra croata, mi giro e riattraverso il casello di frontiera. L’espatrio più breve della storia. Mi fermo in un parcheggio poco più avanti.
Sono le 14:30.

La speranza si è suicidata nel retro dell’auto di Ilaria, a pochi passi dal confine croato.

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