La storia del pulmino

A mezzogiorno porto giù i ragazzi del pulmino. Sono in tre, tutti di quarta elementare.
Due sono gemelline, per fortuna assai differenti così non divento matto a riconoscerle. L’altro è un ragazzino down. Non farò nomi, perciò d’ora in poi saranno le gemelline e il ragazzino down.

Loro sono tunisine, lui boliviano.
Loro sono malate di qualcosa al fegato. Non lo so che cosa. Voci di corridoio dicono siano in attesa di trapianto. Ma non si sa quando arriverà. Spesso sono in ospedale. Seguono una dieta particolare.
Fare le scale, correre, saltare, portare la cartella, per loro sono attività che richiedono uno sforzo fisico elevatissimo. Quando tornano da ginnastica, o da tedesco, sono sempre le ultime della fila, qualche metro indietro al resto della truppa.

Quella più piccolina fisicamente traballa e sgambetta invece di correre. Sorride quando le sorrido, ma a volte fa fatica.

Lui dice solo aaaa, eeeeee, iiiiiii, e questa è tutta la sua gamma di espressione. Sa mettersi la giacca, più o meno, e scende la scale con la velocità di un bradipo. Ha gli occhioni grandi e sporgenti. Sorride sempre anche lui.

Il tempo che tutti e tre si mettono le giacche, le allacciano, si mettono le sciarpe, i berretti, prendono le cartelle, scendono quella benedetta rampa di scale, attraversano il corridoio, escono e salgono sul furgone, una glaciazione è arrivata e si è conclusa.

Ogni tanto ci provo a metter loro un po’ di fretta, non foss’altro perché ho altre cose da fare. Ma i miei appelli restano sempre inascoltati.
Tipo il giorno in cui lui arriva con la giacca tutta aperta.

«Non ha la giacca chiusa» dice una delle gemelline. La più fragile, quella che traballa anziché correre.

«Non importa, tanto il pulmino è già arrivato. Dai, che è tardi.»

Lei non mi ascolta. Si avvicina e armeggia con la cerniera della sua giacca. E’ molto più piccola di lui. Si pianta sulle punte dei piedi e riesce a tirargliela su fino al collo.

«AAA!» dice lui. Che in quel frangente può voler dire grazie, come ho fame, o anche solo “AAA!”, per quello che ne so. Comunque sorride, come sempre.

«Dai, che dobbiamo andare.» Ormai è il mio mantra. E poi aggiungo un «Non serviva.» 

«Non voglio che prenda freddo» mi risponde lei.

Hai capito? Se ne frega la piccoletta della mia fretta, del fatto che devo correre da qualche altra parte, del pulmino che aspetta di sotto, degli orari e dell’organizzazione.

Prendo per mano il ragazzino down e andiamo. Nel frattempo penso: c’è qualcosa che dovrò imparare? Mi dovrò commuovere?

Sono quasi infastidito dall’essere del tutto tranquillo e per nulla ispirato. Eppure, gli ingredienti per una sana lezione di vita, datami da una bimbetta di 9 anni, ci sono tutti. Potrei scriverci pagine di pura commozione. Macchè, niente. Che stia peggiorando?

Arriviamo al pulmino, i ragazzi salgono. Faccio “ciao” con la mano, mentre il furgone esce dal cortile della scuola. E’ tutto molto normale.

E’ questo il fatto: è tutto molto normale. Ai bambini non frega un accidente di darci lezioni di vita. Fanno solo i bambini.

Il resto lo fanno le mie interpretazioni da adulto.
Questa ricerca di un senso delle cose, che va bene, è giusto, a volte diventa quasi ridicolo nel voler appiccicare significati in ogni dove. A volte finisce solo per complicare le cose.

Penso che, in fondo, le persone tentano solo di essere se stesse. C’è’ chi ci riesce meglio e chi meno.
In questo caso è tutto molto semplice: una bambina ha avuto cura di un amico, nel modo giusto e nel momento giusto.

A volte è tutto quello che c’è da capire.

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