Quel gezz che non ti aspetti

Alla penultima canzone, Next Trip, la gente smette di applaudire. Finalmente!
Quelli che aspettano solo una pausa per battere le mani, che pensano che una battuta chiusa in levare sia un via libera per lo scroscio di mani, proprio non li reggo.

A Next Trip, dicevo, qualcosa accade. Cala il silenzio. La sala è tutta là, gli occhi sono puntati sul palco, non vola una mosca. In quel momento la magia della musica è completa.
C’è musica e musica.
Se vado a sentire i Megadeth è giusto gridare come un disperato. Se vado a un concerto punk e non pogo non è un concerto punk. Che cosa ci sei andato a fare, non vorrai sentire per davvero quello che suonano sul palco?
Poi c’è la musica da ascolto e basta. Soffusa, raffinata, cresce man mano e ti accompagna per la via, come un amico che si accoda insieme a te.
Facciamo un po’ di strada assieme? Ti dice.
E’ una presenza discreta, di cui ti accorgi appena, poi man mano ti avvolge e se ti lasci andare alla fine ti accorgi che la strada che stai facendo è la sua strada e che ti porta in luoghi dove non avresti mai potuto immaginare.
La musica in questione è di Andrea Zanzottera Quartet, il tipico quartetto jazz che di tipico non ha poi molto. Del jazz usa il linguaggio, ma poi ci fa quello che vuole. Tant’è che ci sono pezzi come Il Trionfo dello Spreco, che appena ho sentito l’inizio di piano ho pensato: è un pezzo metal! 
Il fatto è che ho una disfunzione metallara, una cosa che se non ho palm muting e doppia cassa ogni due minuti entro in crisi d’astinenza. Invece qui ci stava il clarinetto. Voglio dire, io odio il clarinetto. O almeno credo.
E allora che cavolo ci faccio qui? Ok, torniamo indietro.
A due sere prima, che Luca, l’amico mio, pianista, attore teatrale, fotografo, videomaker e non so cos’altro mi dice: vieni alla chiusura del Jazzit Club.
Dovete sapere che ho una fortuna. C’ho un botto di amici musicisti, creativi, gente che se mette le mani su un piano o su una chitarra va avanti due ore a suonare e quando gli chiedi, mannaggia, che cos’era sto pezzo? Fantastico!, loro ti guardano con quell’aria un po’ stizzita che non sanno bene se li prendi per il culo o meno e dicono che hanno improvvisato la prima cosa che gli è saltata in testa. E con uno spartito che facevi?
Quel giorno Luca mi dice “vieni” e gli rispondo “chi è ‘sta gente?”, non vado mica a sentire un concerto a scatola chiusa, il jazz è una rottura di palle, se poi c’è una chitarra c’ha quel suono acido che sembra una trombetta di carnevale, allora lui – Luca – mi posta un video da Youtube, ma il mio telefono si impalla, come sempre, e quindi niente, non riesco a vederlo, insomma la faccio breve: ci vado.

E faccio bene. Allo SmartLab accade la magia. Quel momento in cui sei una cosa sola con il flusso della musica. Non applaudi, non sbatti le palpebre, non fai niente. Che sei hai tempo da perdere per applaudire significa che non ti sta piacendo abbastanza.
Esco con una sensazione di pienezza. E non come dopo una peperonata, come mi suggerisce, scherzando, Folco il batterista, autore di uno dei migliori assolo di batteria mai sentito. Ha suonato tutto quello che c’era da suonare, anche le viti. Persino Ilaria, per niente avvezza a questo tipo di musica, è rimasta incantata.
Finora solo il batterista di Scott Henderson ha fatto di meglio, dico.
Lui sorride.
In realtà abbiamo suonato di merda, mi risponde.
Chiamatemi quando un musicista dirà che ha suonato bene! Voglio essere lì, a documentare l’evento per i posteri!
La conclusione è che vado via contento. Ma proprio tanto. Con il ricordo di una bella esibizione live, una commistione di generi, in cui groove e melodia sono ben dosati e l’unico genere, alla fine, è la musica stessa. Quella buona, che ti entra dentro e ti rimane anche dopo che hai lasciato il locale.

E il clarinetto finisce pure che mi piace.

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