L’isola dei sogni perduti

isola dell'Asinara

A dieci o undici anni, forse dodici, non ricordo bene, andai in Sardegna.
Fu la prima e unica volta.

Il viaggio fu infinito.
Partenza da Livorno, nove ore di traghetto, con gli occhi fissi a guardare un’immensità blu scura che non finiva mai. Rimasi tutto il tempo seduto su una sdraio, avvolto in un plaid, che quando girava il sole e la nave stava in ombra faceva un bel freschino. Credo di essermi mosso solo per andare in bagno. Ogni metro che facevo all’interno della nave mi girava la testa e mi partiva il vomito. Meglio rimanere fuori. E fermo.

Eravamo ospiti dei miei zii, o meglio degli zii di mia madre, che vivevano a Parma. La zia, che all’epoca faceva ancora la commercialista, era stata invitata da un cliente affezionato nel suo villino in Sardegna. E lei invitò noi. Come dire di no?

La villa stava sulla costa nord, non so dove. Ricordo poco, pochissimo.
Ricordo il mare di Stintino e l’isola dell’ Asinara.
Era lì, giusto a due o tre bracciate, così vicina che ti sembra di poterla toccare. L’Asinara era tutto ciò che avevamo sempre sognato di vedere, mia sorella e io. All’epoca era ancora un carcere. Nessuno ci poteva andare.

Nessuno, tranne zio Salvatore. Perché lo zio c’era già stato. Ci aveva passato anni laggiù, in quel posto sperduto in mezzo al mare, un misto fra il Paradiso e l’Inferno.

Vedi, sono cresciuto con tre miti: la pasta di mandorle, Conan il ragazzo del futuro e l’isola dell’Asinara.

Il secondo riguarda le mie passioni. Il primo e il terzo le passioni di mia madre.
Avere una mamma sicula e vivere in Trentino significa capire ben presto che esiste qualcosa di mitico, che però non vedrai spesso. La pasta di mandorle era una di queste. Certo, la trovi pure qua, ma come la fanno in Sicilia, mai.

E l’Asinara? Che c’entrava con mia madre?

All’epoca dei fatti dell’ Asinara, mia madre aveva otto o nove anni. Ancora non sapeva che di lì a poco avrebbe lasciato la sua terra per venire in mezzo alle montagne, dove d’inverno il freddo ti piantava le zanne nella carne e mordeva come un lupo affamato e la neve ti arrivava fino alle ginocchia.
Mia madre non sapeva tutto questo. Passò le ultime due estati da isolana su un’altra isola, più piccola e selvaggia della Trinacria.

Era un carcere premio, ero un paradiso perduto, era quanto di più bello potesse esserci per dei bambini di otto o nove anni.
Mia madre visse quello che noi abbiamo sognato guardando i Goonies. Visse due estati in una terra incontaminata, pura e selvaggia, dove l’unica libertà non concessa era quella di lasciarla. Visse a contatto con galeotti, persone dalle mille storie, dal passato incredibile e spesso assurdo.
Come Toni, il pescatore che durante la guerra rubò un sacco di pasta. Fu imprigionato con il carcere a vita. La guerra di lì a poco finì, la pena no. Fu cambiata nel carcere premio, l’isola dell’Asinara. Dove i detenuti coltivavano la terra, erigevano dighe, pescavano e scherzavano coi secondini.

Toni aveva la barca e usciva in mare aperto a pescare. Tornava carico di pesce. Non scappò mai. Quella era la sua casa, il direttore la sua famiglia.

C’era il mare, splendido come una perla, un territorio selvaggio come l’isola di Conan, le leggende sulle fughe dei detenuti e le morti tragiche nel mar della Sardegna.

Era l’isola dei sogni, l’isola delle leggende. L’isola dell’Asinara. Prima che diventasse un carcere speciale, anni e anni prima di Falcone e Borsellino.
Mia madre e suo fratello ci passarono due o tre estati, ospiti di zia Enza e zio Salvatore. Quelli che ora stavano a Parma. Ma prima, tanti anni prima, lo zio era stato lì. Non come galeotto, non come secondino: fu per anni il direttore.

A dieci o undici anni, forse dodici, andai in Sardegna, con tutta la famiglia, ospiti di zia Enza e zio Salvatore. L’ex direttore dell’ Asinara. L’unico che poteva ancora andarci.

L’isola dei sogni era lì, di fronte alla spiaggia di Stintino. Noi attendevamo sul molo di un porticciolo. Lo zio aveva chiamato il direttore attuale, chiedendogli di sbarcare sull’isola. Quello aveva dato il permesso con piacere.

Dall’isola di stacca un puntino e viene verso di noi, lentamente. E’ una motovedetta. Viene per noi.
Come dicevo, sono cresciuto con il mito dell’ Asinara. Per anni ho sentito parlare delle estati di mia madre sull’isola. Ora l’avrei vista.

La motovedetta arriva, scendono persone in uniforme. Parlano con lo zio. Lo zio parla con la zia e con i miei genitori. Poi lui saluta i militari. Loro salutano. Risalgono sulla motonave. Il motore inizia a schiumare.

«Che succede?» dico.
«Il direttore ha dato il permesso solo allo zio.» dice mia madre. «Lui si è dimenticato di dirgli che c’eravamo anche noi.»

La motovedetta nel frattempo lascia il molo.

«Non può chiamarlo di nuovo?»
«No, non se la sente. E’ già un favore grande così.»

Restiamo sul molo a guardare. La motovedetta ridiventa un puntino in breve tempo e svanisce, inghiottita dalla sagoma dell’Asinara.
L’isola è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. Restiamo sul molo, speriamo. Che cosa speriamo non lo sappiamo nemmeno noi.

«Andiamo» dice infine mio padre.

Ci voltiamo, lasciandoci alle spalle il mare di Stintino e l’Asinara.
L’isola che non vedremo mai.

L’isola dei sogni perduti.

 

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