Il treno dei neri

Qualche tempo fa notavo che quando vado in montagna, mi è facile sentirmi in comunione con tutto. Non lo è altrettanto fare la stessa cosa con i miei simili. Perché?
Di base ho delle buone intenzioni. Poi si scontrano con la realtà e con le sue interpretazioni. E mi sono accorto che una teoria della differenza si crea nel quotidiano, nella banalità delle relazioni, giorno per giorno, non tanto nell’aderenza alle grandi ideologie. Quella che segue è un’analisi senza filtri di un vissuto interiore.

Oggi prendo il treno per miracolo.
Arrivo che ha già le porte aperte e la gente sta scendendo. Salgo dove capita. Di solito salgo in cima, o in coda al treno, perché c’è meno gente. Le persone si ammassano quasi tutte in centro, e io non ho proprio voglia di stare a sgomitare. E voglio stare seduto senza, se possibile, nessuno accanto.

Oggi invece salgo a caso, entro nel primo scompartimento che mi capita: tutti neri. Non c’è, non dico un italiano, ma nemmeno uno di colore più chiaro del fondente della Novi. Ci sono così tanti africani, così tante facce scure, così tanti nasi schiacciati, che il dubbio di aver sbagliato treno, o addirittura Stato, mi viene.

Il treno dei neri
Il treno dei neri

Sto col naso dentro e i piedi fuori. Sento un senso di minaccia. Cos’è? È perché sono l’unico bianco? È vero, mi sento un totale estraneo. Come se in quel vagone non ci potessi stare. Poi penso che darla vinta al pregiudizio e alle paure irrazionali sia sciocco. Paura di cosa, poi? Di stare in mezzo a persone con la pelle diversa dalla mia? Non scherziamo! Entro col piglio di un Indiana Jones nel tempio maledetto e mi siedo di fronte a uno che sto dormendo.
C’è un caldo asfissiante. Merito, penso, dell’aria condizionata sui regionali Trenitalia, che funziona quando non ti serve e viceversa. Nel frattempo, un tipo si è tolto la maglietta e l’ha messa sul poggiatesta del sedile.
E lui sta in canottiera.

C’è un casino pazzesco.
Parlano tutti a voce così alta che pare stiano urlando, in un mix di inglese e lingue gutturali assurde.
Entra un signore italiano, ha un’espressione allucinata e scappa, alla ricerca di un vagone più bianco. Sorrido. Non durerebbe due secondi qui. Tuttavia nemmeno io riesco a rilassarmi.
Alle sei della mattina sono rimbecillito dal risveglio e soprattutto voglio una cosa sola: silenzio. Qui invece c’è un volume così alto, che al confronto la piazza del mercato il giovedì sembra una veglia funebre.
Io amo il silenzio, soprattutto la mattina. Non parlo con la gente in treno. Leggo, scrivo e in generale, mi faccio i fatti miei.
Sono fatto così.

Anche loro sono fatti così.
E mica posso chiedere se stanno zitti. Uno contro dieci, a chi vuoi che tocchi adattarsi? Se non mi piace, cambio vagone. Qual è il problema? Ce ne stanno altri otto o nove.
Certo che però stanno su ‘sto treno come fosse il loro. Il biglietto l’avranno pagato per metà viaggio, se l’hanno pagato. Non è un pregiudizio, è che fanno così. Cose già viste. Così, in fondo, pago io per loro. Faccio andare su e giù dieci negri col mio solo abbonamento. Capisco che soldi non ne abbiano (forse), che in qualche modo si devono arrangiare, però almeno non startene sul treno come fosse casa tua, coi piedi scalzi sul sedile e le ascelle al vento!

Ecco, è arrivata. C’è la puzza. Lo sapevo.
Con tutto il sudore di questi qui ammassati da un’ora sul regionale Verona-Bolzano, senza aria condizionata, la puzza è ancora più forte. Voglio dire, non è che i neri puzzano. È che fa caldo e loro hanno un odore caratteristico. Ecco, sì, caratteristico. Che però a me mi sembra puzza. Noi occidentali mica ce l’abbiamo quella puzza, quell’odore caratteristico lì. Ok, a me puzzano le ascelle, ma quella è un’altra storia. Ho corso e sono sudato, tutto lì.

Sto in un bagno di sudore. Ho davvero corso troppo per prendere il treno. E qui si soffoca. E c’è un casino, fra il rumore di ferraglia del treno e questi che urlano da una parte all’altra del vagone e urlano al telefono, che sembra che vogliano raggiungere l’Africa a voce! Guarda che ti sentono lo stesso in Burundi, sai?

Non ce la faccio. Mi alzo e esco. Sto sul seggiolino scomodo di fronte alle porte. Il frastuono del treno qui è il doppio, ma c’è fresco. E nessuno che urla con quella voce da scimmia.

Il viaggio finisce fin troppo presto, e meno male! Un quarto d’ora e poi le porte si riaprono e io scendo e me ne vado. Se fosse stata un’ora che avrei fatto? Comunque sia, meno male che non sono razzista.

Sennò li avrei mandati tutti affanculo, ‘sti neri di merda.

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